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La radioterapia

Quinto giorno di quindici. È buio e si viaggia Alessandria - Milano e ritorno. Io e Marco cantiamo tutto il tempo le nostre canzoni, come capita sempre quando viaggiamo. Guardo fuori le luci dell’autostrada, poi appoggio la testa al sedile e chiudo gli occhi. Sapere a memoria la strada per l’Istituto Europeo di Oncologia mi riempie di tristezza. Tangenziale est, uscita 8. Mi viene una stretta allo stomaco, anche se qui mi hanno salvato la vita. Allora cerco di deviare i miei pensieri e ricordo quando questa strada la facevo per l’università e poi per il lavoro, quando tornavo su alla mia casa milanese la domenica sera o il lunedì mattina. Sorrido pensando agli amici che ho qui e a tutte quelle che ho passato in otto anni. Arriviamo in Istituto che è deserto, andiamo diretti nel sotterraneo dove ci sono i bunker per la radioterapia e attendo il mio turno delle 19.15 spaccate. Entro nello stanzino, mi spoglio il torace e la testa, mannaggia a sto specchio che mi mostra così vulnerabile. Sono pronta, possiamo andare. Percorro con l’assistente il corridoio che mi porta all’astronave in cui farò la seduta. “Fai finta di essere a fare la lampada” dice la mia mente per dare un calcio a tutti pensieri. Mi sdraio, solita scomodissima posizione a braccia in alto e ginocchia leggermente piegate. Mi sistemano e se ne vanno chiudendomi ermeticamente dentro la stanza, lasciandomi sola con il mio pacchetto quotidiano di radiazioni. Fisso il soffitto e c’è un laser che mi punta una luce rossa dritta sulla punta del naso. Il lettino automaticamente mi trascina nel tubo e iniziano i rumori di ferraglia che sembrano una slot machine. Chiudo gli occhi, regolo il respiro, e per gestire il male alle braccia penso che da lì a 10 minuti sarà tutto finito. E penso. Penso. Penso che il disagio è un sentimento fortissimo in queste condizioni. E in barba a chi, da sano, mi suggerisce di non circondarmi di malati, penso alle mie chemioamiche. Sono loro alla fine che mi danno il coraggio, perché penso che non sono l’unica, la sola, a subire queste cose. Che là fuori è pieno di donne che soffrono come me, che combattono come me, che si vergognano a guardarsi allo specchio, che crollano, che reagiscono, che trovano il coraggio e la forza per andare avanti ogni giorno. Chiusa in questo tubo penso che non sono sola qui dentro. E penso che quando si vivono momenti drammatici come è successo a me, avere qualcuno che esattamente capisca cosa stai provando e sapere che su queste persone per lontane che siano puoi contare, infonde una forza strepitosa. Quindi no, non voglio stare con i sani, non solo almeno. Io ho bisogno di chi è come me, e loro di me.


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