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Resistere... nonostante tutto!

Dopo la diagnosi di cancro maligno mi sono sentita morire anzitempo.

Forse sto combattendo con me stessa, per farmi comunque restare addosso certe emozioni.

Una parte di me vorrebbe respingerle, un’altra (la predominante) trattenerle, trasformarle in qualcosa di bello, e donarle.

Ci sono cose che fanno male da impazzire, anche solo a sentirle, leggerle, o immaginarle.

Poi c’è la vita, che ti scorre accanto e ti attraversa, inarrestabile mentre tu controcorrente provi a tenere la testa fuori dal flusso.

Cosa desidera una persona dopo una diagnosi? Una cosa soltanto: restare viva. Tutto il resto è niente.

Io dico sempre che non so come avrei reagito se le cose fossero andate diversamente, se si fossero messe male anche per me. Per un bel po’ l’ho temuto, quando l’orizzonte non era chiaro, e quel timore ti rimane poi addosso per sempre e in bocca quel gusto come una medicina amara ogni tanto torna su.

Però ho visto amiche senza speranza trovare una forza cento volte superiore alla mia, quindi so che la malattia può mutilarti, ma non ti toglie il sorriso e il coraggio di andare avanti.

Io ho preso questa pallina malefica che si era annidata nel mio petto e ora ci sto giocando come col didò, le sto dando la forma che voglio io, e ne voglio tirare fuori un capolavoro.

Dopo che desideriamo restare vivi, cosa c’è oltre quella cortina di nebbia che non ti permette di guardare oltre? C’è la vita, fatta di ogni piccolo gesto che compone la quotidianità.

Quando scrivevo disperata alla psichiatra, lei mi diceva che la vita andava avanti comunque, che avrei dovuto continuare a essere una mamma, una lavoratrice, una donna che fa la spesa e pulisce. E io non capivo. Dicevo ma come faccio? Il tumore mi ha distrutto la vita, le terapie mi stanno annientando! Potrebbero essere gli ultimi mesi! Ma non avrei avuto coraggio e possibilità di andare a svernare in Messico, quindi ho deciso di rimanere e affrontare tutto quello che sarebbe stato.

Dopo un po’ l’ho capito. Quando ho ricominciato a tirare il fiato, a capire che non sarebbero forse stati i miei ultimi mesi, e anche se lo fossero stati non avrei potuto viverli in panico totale.

Da lì ho iniziato a trasformare il male in bene, a canalizzare il panico in una direzione diversa, togliergli quel cappuccio nero e dargli un bel vestito colorato.

Ho capito solo adesso che non tutti abbiamo le stesse percezioni e le stesse reazioni, e che non c’è un modo giusto e uno sbagliato per elaborare il proprio dolore. Io non posso che offrire sul piatto la mia personale esperienza, e per chi vuole nutrirsi alla mia tavola c’è sempre un posto libero.



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